Psicoterapia

DA PLATONE A FREUD: IL MITO DELLA CAVERNA

Si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dall’infanzia, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro.

Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco e i prigionieri, corra una strada rialzata. Lungo questa strada sia stato eretto un muricciolo, lungo il quale alcuni uomini portano forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Le forme proietterebbero la propria ombra sul muro e questo attrarrebbe l’attenzione dei prigionieri. Se qualcuno degli uomini che trasportano queste forme parlasse, si formerebbe nella caverna un’eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che questa voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro.

Mentre un personaggio esterno avrebbe un’idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (si ricordi che sono incatenati fin dall’infanzia), sarebbero portati ad interpretare le ombre “parlanti” come oggetti, animali, piante e persone reali.

Si supponga che un prigioniero venga liberato dalle catene e sia costretto a rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l’uscita della caverna: in primo luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del fuoco ed egli proverebbe dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre.

Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto ad uscire dalla caverna e venisse esposto alla diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s’irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo.

Volendo abituarsi alla nuova situazione, il prigioniero riuscirebbe inizialmente a distinguere soltanto le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell’acqua; solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti stessi. Successivamente, egli potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti con maggior facilità che di giorno. Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell’acqua, e capirebbe che:

« è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni vedevano. »

(Platone, La Repubblica, libro VII, 516 c – d, trad.: Franco Sartori)

Resosi conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un senso di pietà: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli altri prigionieri ad essere liberati. Infatti, dovendo riabituare gli occhi all’ombra, dovrebbe passare del tempo prima che il prigioniero liberato possa vedere distintamente anche nel fondo della caverna; durante questo periodo, molto probabilmente egli sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri, in quanto sarebbe tornato dall’ascesa con “gli occhi rovinati”. Inoltre, questa sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sulla sua opera di convincimento ed, anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se tentasse di liberarli e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell’accecamento e la fatica della salita per andare ad ammirare le cose da lui descritte

Tra la Psicologia della Repubblica di Platone e la Psicoanalisi di Freud troviamo sorprendenti convergenze.

L’inconscio di Freud è paragonabile all’oblio che Platone descrive nel mito della caverna dove gli uomini sono condannati a vedere soltanto le ombre del vero. L’accesso all’inconscio di Freud non avviene attraverso un ingresso spalancato ma bensì una porta che si apre e si richiude all’istante. Una porta che si può aprire solo dall’interno ed il terapeuta, senza pretendere di conoscere la verità, non può che aspettare che l’inconscio si apra si manifesti attraverso i sogni, i lapsus, un ricordo, una dimenticanza, ed evitare che si richiuda. Pian piano verranno fuori delle verità al soggetto stesso sconosciute e che tenderà a rifiutare proprio come il prigioniero della caverna di Platone che accecato dal bagliore del fuoco ha difficoltà a riconoscere gli oggetti di cui prima vedeva proiettate le ombre e vorrà tornare indietro.

Il motivo per cui il soggetto non vuol sapere è che ciò che emerge può essere non dicibile, non sopportabile. E’ la pulsione che si manifesta, ciò che Platone ancora prima di Freud definiva desideri repressi che trovano soddisfazione nei sogni.

Le ombre della caverna di Platone corrispondono alle credenze contenute nell’inconscio, gli oggetti proiettati il contenuto delle pulsioni, il bagliore del fuoco le resistenze, le maglie delle catene la repressione. Il sole la coscienza.

Nella caverna di Platone il prigioniero che si deve liberare è lo stesso Platone nella caverna-incoscio è la persona stessa che si deve liberare.

In definitiva, mentre quelli all’esterno della caverna sono i privilegiati che hanno accesso alla conoscenza, quelli che sono all’interno della caverna sono soggetti alle credenze.

Colui che è uscito e rientrato nella caverna non riesce a convincere gli altri prigionieri della verità cui è giunto vedendo il sole. Coloro che non hanno mai abbandonato la caverna non sono disposti alla fatica ed alla sofferenza che vedono negli occhi di chi si è liberato, preferiscono stare all’interno della loro tranquillità, al sicuro con le loro credenze.

Anche chi si prende cura della salute mentale rimane prigioniero della caverna se si ferma al sintomo. Si è fuori dalla caverna alla luce del sole solo quando c’è la consapevolezza che i sintomi non dipendono dalla cattiva volontà delle persone che ne sono affette , ma parlano ed hanno un loro dignità perché hanno origine in una causa inconscia.

Studiando i sintomi nevrotici Freud sostenne che il sintomo rappresenta il punto di incontro fra uno o più tendenze rimosse e quelle forze della personalità che si oppongono all’ingresso di tali credenze nel sistema conscio

La parte dell’inconscio è la parte predominante poiché i contenuti mentali consci sono influenzati da quelli inconsci, dalla parte incontrollata dell’uomo.

Le nostre reazioni a ciò che percepiamo non sono dovute a ciò che realmente vediamo ma a ciò che il nostro inconscio percepisce noi agiamo come gli uomini nella caverna. Lo scopo e il compito dello psicoterapeuta è quello di attendere che il paziente esca dalla caverna, di ascoltarlo ed incoraggiare un dialogo a cui parteciperà per evitare che parlando solo con se stesso non possa fare altro che rimanere chiuso nella caverna e imprigionato dalle sue credenze.